Della valutazione educativa

Proseguiamo con il contributo di Pietro Lucisano, ordinario di Pedagogia Sperimentale presso il Dipartimento di Psicologia dei processi di Sviluppo e socializzazione dell’Università “La Sapienza” di Roma, la pubblicazione delle riflessioni sulla recente reintroduzione dei giudizi descrittivi nella scuola primaria, facendo seguito agli interventi di Mario Russo e Raffaele Mantegazza.  L’approccio docimologico del suo contribuito arricchisce il dibattito sulla recente riforma con una riflessione più ampia sul significato della valutazione all’interno dell’azione educativa.

Mio nonno faceva il falegname e diceva che quando si taglia un’asse è sempre meglio essere di manica larga perché se sbagli è più facile limare. Se invece si taglia troppo rimediare diventa molto più difficile e talvolta impossibile.

Quando si parla di valutazione è bene considerare attentamente il senso che vogliamo attribuire a questo termine. Di valutazione in educazione si è parlato molto e tuttavia rimane ancora – più nell’opinione pubblica e nei decisori politici e forse meno tra gli insegnanti – molta confusione sui fini, sui mezzi e sulle modalità più idonee della valutazione educativa.

La confusione si è accresciuta poi in tempi recenti a causa dei continui travisamenti sull’idea della funzione della scuola. Da alcuni ridotta a strumento a servizio dell’economia con l’obiettivo di accrescere il valore del capitale umano, da altri intesa come un servizio alle famiglie finalizzato alla loro soddisfazione (customer satisfaction), in ultimo concepita come un’azienda in competizione con altre aziende, da premiare o punire sulla base dei risultati ottenuti.

E ancora crea confusione l’idea che la scuola debba portare tutti a certi standard di conoscenze e abilità, senza le quali (secondo quelli che li definiscono non si può sopravvivere o avere successo nella società attuale). Queste concezioni errate sul senso della scuola e il ricorso continuo a graduatorie, classifiche e confronti, ha finito poi per ripercuotersi sui mezzi da utilizzare, ha generato ansia negli insegnanti, nei genitori e ancor peggio nei bambini stessi.

Forse è diventato necessario valutare la valutazione e il suo significato all’interno dell’azione educativa e separare la mala valutazione da quella utile e necessaria.

La scuola è una istituzione dello Stato con funzioni definite con chiarezza dalla Costituzione: il suo compito è creare condizioni che favoriscano la motivazione, i processi di apprendimento (di cui sono protagonisti i bambini e gli studenti), la valorizzazione delle capacità di ciascuno, rimuovendo gli ostacoli di natura economica e culturale.

La capacità di valutare, quella che Dewey chiama “libertà dell’intelligenza” è il fine principale dell’azione educativa, quello che deve aiutare i ragazzi a crescere ed essere capaci di fare scelte consapevoli. Questo obiettivo comprende il diventare in grado di valutare le situazioni,  le proprie capacità, il saper scegliere i propri obiettivi, tenendo conto delle proprie risorse, del contesto e dei mezzi disponibili.

In questo senso è importante che insegnanti e studenti imparino a riflettere e a comprendere quali siano gli strumenti adeguati per affrontare al meglio la situazione. Per quanto riguarda poi le prime fasi dell’esperienza scolastica, nell’esercizio dell’azione educativa bisognerebbe tenere in gran conto le differenze individuali, i diversi ritmi di crescita, le diverse modalità di apprendimento, anche il diverso modo di reagire agli stimoli di ciascun individuo.

La valutazione è dunque una dimensione complessiva dei processi di apprendimento-insegnamento e va esercitata nella relazione tra insegnanti, bambini, famiglie e sistema sociale con grande attenzione, rispetto, prudenza ma anche con un corretto atteggiamento scientifico.

Ridurre la valutazione all’esercizio del giudizio su singoli prodotti o sui compiti dello studente è una riduzione. Immaginare che il feedback principale, in relazione alle esperienze in cui un bambino o uno studente si mette alla prova, possa essere sintetizzato in un numero è pratico, ma impoverisce l’intelligenza di ciò che si è sperimentato. Immaginare che questi numeri possano essere sommati e divisi e che la loro media rappresenti un esito complessivo è semplicemente scorretto dal punto di vista scientifico e controproduttivo dal punto di vista educativo.

Irrigidire i criteri privando gli insegnanti stessi della possibilità di usare con discernimento i propri voti (come è avvenuto per gli esami di scuola media) con l’idea che bisogna essere rigorosi è ancora più sciocco.

A scuola non si va per essere valutati, ma per imparare a valutare, per imparare ad imparare dai propri errori, ma anche per imparare a conoscere i propri punti di forza e i propri limiti, in quanto solo conoscendoli è possibile valorizzare i propri punti di forza e imparare a convivere e a superare, quando possibile, i propri limiti. In questa prospettiva l’insegnante diventa un coach a cui mostrare le proprie performance o a cui chiedere correzioni e non un giudice di cui temere il giudizio.

Per far questo non basta trasformare i voti in lettere (ciò tuttavia farebbe capire anche ai più sprovveduti che non è possibile farne un media) o i voti in giudizi con il rischio che si è corso in passato di cercare formule politicamente corrette, brevi e stereotipate. È necessario ripensare in modo profondo il modo in cui si propongono ai bambini, agli studenti e agli stessi insegnanti esperienze di apprendimento all’interno del sistema. Dewey definiva educativa un’esperienza quando questa era in grado di promuovere un continuo di esperienze di crescita; diseducativa, al contrario, era quando determinava un blocco. È facile per ciascuno di noi fare un bilancio di quanti aspetti delle nostre potenzialità sono stati bloccati da una esperienza diseducativa, da un brutto voto, da un commento improprio, dalla percezione di un’ingiustizia, dalla paura di intervenire per non fare brutta figura.

Deve anche essere chiaro che la scuola non ha il compito di certificare competenze. Certificare competenze in età evolutiva, non solo rappresenta una predizione poco attendibile degli sviluppi successivi, ma rischia di essere una profezia che si autoavvera. Le certificazioni, come tutte le misure puntuali, hanno valore temporaneo, tuttavia rischiano di impedire agli insegnanti successivi, ma anche agli stessi genitori, di esaminare con apertura le caratteristiche dei ragazzi che possono mutare anche nel corso di un’estate.

Così se smettessimo di considerare la valutazione un adempimento e considerassimo il valutare un modo di essere dell’individuo intelligente, forse perderemo meno tempo in attività formali e spesso inutili e avremo modo di concentrarci sul senso dell’azione educativa e del dialogo. È importante in questa prospettiva della valutazione considerare come far sentire i ragazzi apprezzati, stimati e cercare in ciascuno gli  aspetti che lo possono fare apprezzare dagli altri.

Dunque, la semplice sostituzione dei numeri con in giudizi, da tempo richiesta da tutti gli esperti e concessa solo in tempo di crisi, sarà utile solo se rappresenterà un primo passo verso un ripensamento complessivo verso una scuola che piaccia e motivi insegnanti, studenti e genitori, verso una scuola che valutando bene possa essere ben valutata e apprezzata da tutti.

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