Valutare per emancipare

Interviene nella rassegna di riflessioni e proposte avviato in questa sezione della piattaforma anche Anna D‘Auria, segretaria nazionale MCE – Movimento di cooperazione educativa, un’associazione professionale di insegnanti nata nel 1951 sulla scia del pensiero pedagogico e sociale di Célestin ed Elise Freinet e ispirata ai valori della partecipazione democratica, della libertà di espressione e della cooperazione.


L’approvazione ad opera del Senato della Repubblica di un emendamento alla legge conversione del D. L. 22/2020 che ha abolito i voti in decimi nella scuola primaria e introdotto i giudizi descrittivi è da accogliere positivamente, pur segnalandone le dissonanze e i limiti.

É innegabile infatti che aver eliminato i voti alla primaria è già un “qualcosa” per promuovere una svolta nella cultura del Paese in tema di valutazione. Cultura in cui a prevalere, in una società a forte impronta neo-liberista, è l’ideologia del merito e una concezione selettiva, classificatoria, a cui sono stati subordinati la valutazione scolastica, sia degli apprendimenti che di sistema, e il compito educativo della scuola.

Tuttavia, c’è da chiedersi quale visione di scuola veicola la differenziazione della modalità valutative tra primaria e secondaria di I grado compresi nello stesso percorso scolastico.

Campagna “Voti a perdere”

È dal 2015 che insegnanti, associazioni professionali con la campagna “Voti a perdere” hanno sollevato il problema della valutazione degli apprendimenti, chiesto l’abolizione del voto almeno nel primo ciclo d’istruzione, denunciato la semplificazione di un’operazione complessa come la valutazione, trasformata con il voto in una semplice “misurazione” incapace di promuovere e contribuire all’evoluzione dei soggetti.

A motivare la mobilitazione, la profonda consapevolezza pedagogica e politica che la scelta dei mezzi attraverso i quali si valuta non è neutra rispetto al raggiungimento dei fini che la stessa valutazione degli apprendimenti si pone.

E questo lo sapevano già negli anni ’50 C. Freinet in Francia e gli “eroi disarmati” della pedagogia italiana: G.Tamagnini, B.Ciari, Don Milani, M.Lodi che hanno lasciato come impegno e testimonianza politica le pratiche della scuola attiva e la pedagogia dell’emancipazione.

Era chiaro a questi pedagogisti che gli strumenti con cui si valuta hanno il “potere” di dar luogo a due diverse ed opposte prospettive di politica scolastica e conseguentemente di approccio didattico-metodologico: produrre l’emancipazione dei soggetti, riuscendo a garantire a ciascuno, accanto all’esperienza della dignità, del valore personale, sociale, l’esperienza del successo formativo. Oppure produrre normalizzazione che, in una società non egualitaria, si traduce nel mantenere, (se non nell’amplificare) le differenze di ingresso a scuola.  

Tenuto conto del livello di mobilità sociale in Italia e di come le condizioni socio-economico-culturali di partenza condizionino di nuovo e fortemente gli esiti scolastici, possiamo affermare che la scuola italiana produce più normalizzazione che emancipazione di bambini/studenti.

Per una scuola della Costituzione

Da più di un ventennio le politiche scolastiche non riescono a tradurre nei dispositivi valutativi quanto previsto dall’articolo 3 della Costituzione: compito della Repubblica è la rimozione degli ostacoli per il pieno sviluppo della personalità di ognuno/a.

E la scuola, che per la nostra Costituzione dovrebbe essere anche dei capaci e dei meritevoli privi di mezzi, la maggior parte delle volte, piuttosto che metterle in crisi, sembra invece confermare le strutture di classe.  La geografia della propria nascita, lo status di appartenenza, le condizioni economiche, sociali, culturali, il genere, l’essere o no cittadino italiano, continuano a condizionare fortemente i destini di tanti. 

La scuola non riesce a fare la differenza. Non riesce a rimuovere gli ostacoli e nel nostro sistema scolastico permangono gravi gli insuccessi formativi (come provano i test internazionali e le prove INVALSI), la percentuale di abbandoni, di dispersione  dei minori che vivono in povertà culturale ed educativa, soprattutto nelle regioni del Sud e nelle isole.

La valutazione formativa

Se scopo della scuola dell’obbligo è formare i futuri cittadini, allora i mezzi che la valutazione usa dovrebbero essere concepiti come funzionali unicamente a questo scopo. Dovrebbero essere capaci di dare informazioni utili sul percorso del bambino/studente, per migliorare e progredire e permettere l’autoregolazione del processo di insegnamento apprendimento sia per lui che per l’insegnante.

In questo caso si può parlare di valutazione formativa. Una valutazione orientata a mantenere un dialogo aperto con il bambino, lo studente e la sua famiglia, al contrario del voto che, interpretando una concezione della valutazione unicamente in termini di misurazione e classificazione, dà luogo a comunicazioni chiuse e fortemente lesive del sentimento di auto-efficacia di chi le riceve. 

Soprattutto il voto fotografa una situazione, non coglie gli elementi del processo e finisce con l’attribuire allo studente, alla sua storia personale e alla famiglia la responsabilità dell’insuccesso. Allorché il più delle volte è l’intervento educativo che non è riuscito a rispondere ai bisogni formativi del soggetto attraverso una progettazione didattica adeguata, contesti e ambienti di apprendimento inclusivi.

Ogni insegnante di fronte a un deficit d’apprendimento dovrebbe sempre chiedersi se non ci sia stato prima un deficit d’insegnamento.

Politica e valutazione

Che le pratiche di valutazione a scuola veicolino una precisa idea di scuola, e assumano una funzione emancipatrice o selettiva rispetto al soggetto è confermato dall’analisi degli sviluppi della normativa in Italia nelle diverse fasi politiche.

Nel 2008 è poi calata la ‘gelata’ delle politiche regressive e con la Riforma Gelmini vennero ripristinati i voti poi confermati nel 2017 dal D.Lgs n°62 della Buona Scuola.

Nella stagione delle grandi riforme sociali e scolastiche, con la grande apertura democratica della L. 517 del 1977, accanto all’introduzione della programmazione, delle classi aperte, delle pratiche di integrazione, si ebbe l’abolizione dei voti e l’introduzione della valutazione narrativa.
Il giudizio descrittivo della nuova scheda venne sostituito nel 1992 dalle lettere (A-B-C) e nel 1996 dai giudizi sintetici e gli aggettivi (buono, distinto…).  

Ma il vero salto è quello di quest’anno 2020 dove sono stati previsti strumenti valutativi diversi all’interno del percorso del primo ciclo di istruzione: il giudizio descrittivo per la scuola primaria, il voto per la scuola secondaria.

Ci si chiede come nella realtà degli Istituti comprensivi e dei Collegi dei docenti unitari gli insegnanti della primaria e della secondaria di primo grado, a fronte di modalità valutative così diverse e non equiparabili, possano lavorare insieme ad un curricolo unitario, verticale rispettoso delle Indicazioni Nazionali e in continuità didattica ed educativa.

Ma soprattutto c’è da chiedersi cosa cambia nella mente dei legislatori nel compito della scuola verso un bambino di 8 anni o un preadolescente di 13 anni.   Un compito che dovrebbe fare riferimento allo sviluppo della persona, alla sua emancipazione culturale, affettivo-relazionale, sociale per farne un futuro cittadino attivo, capace di esprimere le responsabilità democratiche. È questo il senso e la funzione del percorso della scuola dell’obbligo, di questa esperienza formativa che lo Stato garantisce e alla quale “costringe” ogni cittadino sino ai 16 anni. 

“Favorire il pieno sviluppo della persona nella costruzione del sé, di corrette e significative relazioni con gli altri e di una positiva interazione con la realtà naturale e sociale. Fornire ai giovani gli strumenti per l’acquisizione dei saperi e delle competenze indispensabili per il pieno sviluppo della persona in tutte le sue dimensioni e per l’esercizio effettivo dei diritti di cittadinanza”[1]

Giudizio descrittivo

Una riflessione va poi fatta sull’introduzione del giudizio descrittivo nella scuola primaria. Affinchè esso non riproponga, facendo uso di aggettivi/avverbi, l’approccio classificatorio, centrato sulla “prestazione”, poco attento al processo, analogo negli effetti al voto, è necessario che siano previste misure straordinarie di formazione obbligatoria per tutti gli insegnanti sul tema della progettazione e della valutazione degli apprendimenti. 

Non basta infatti rimettere in discussione l’apparato normativo sulla valutazione. Questa azione per essere efficace deve essere sostenuta da idonee misure di accompagnamento degli insegnanti per ripensare la didattica, la progettazione curricolare, l’organizzazione della classe e dei materiali come momenti strettamente interdipendenti con la valutazione formativa.

‘Liberare’ la scuola dai voti deve andare necessariamente insieme al liberare la scuola dal fantasma del programma da svolgere. È dal 2012 che i programmi nazionali sono stati sostituiti dalle Indicazioni Nazionali. Ma, a distanza di tanti anni emerge ancora nell’immaginario e nel linguaggio collettivo (che investe anche molti addetti ai lavori) il “Programma” come punto di riferimento rigido, chiuso, non dialogante ma definito a priori, indotto dai manuali scolastici e dalla consuetudine.

Le Indicazioni Nazionali non sono prescrittive, non elencano argomenti o temi da trattare, né stabiliscono in quale classe questi argomenti – contenuti vanno trattati. Propongono il ricorso alle discipline e ai loro apparati concettuali in modo che non siano chiusi in se stessi ma utilizzati come strumenti di comprensione e di interpretazione di quanto accade, per problematizzare, condividere insieme mentre si apprende, tenendo sempre presente la centralità della persona.

Lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali, religiosi. In questa prospettiva, i docenti dovranno pensare e realizzare i loro progetti educativi e didattici non per individui astratti, ma per persone che vivono qui e ora, che sollevano precise domande esistenziali, che vanno alla ricerca di orizzonti di significato.” [2]

Se non si mette al centro la persona e i suoi bisogni formativi, se non si costruiscono percorsi individualizzati, se non si usa la valutazione in funzione regolativa del processo di insegnamento-apprendimento con o senza voti faremo ancora i conti con insuccessi/abbandoni/povertà educative che continueranno a rappresentare un gravissimo vulnus democratico, un’ipoteca sul futuro di tutti e del Paese.

Gli insegnanti e la scuola vanno messi in condizioni di poter garantire con coerenza e responsabilità professionale politico-pedagogica una valutazione omogenea, orientativa, umana perchè funzionale all’emancipazione dei soggetti, in tutti gli ordini di scuola[3].

Una valutazione in linea con una pedagogia dell’emancipazione senza la quale non c’è rimozione degli ostacoli, e non si dà cittadinanza e cura del bene comune come antidoto a individualismi, privilegi e classismo. 


[1] Legge n° 296 del 2007   http://www.parlamento.it/parlam/leggi/06296l.htm

[2] Indicazioni Nazionali 2012 – Scuola Cultura Persona – La scuola nel nuovo scenario, p.7

[3] Eliminare il voto solo alla primaria non può bastare, deve necessariamente essere esteso almeno a tutto il primo ciclo, se non alla scuola dell’obbligo.

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